5 aprile 2008

Sempre più a est, sempre più a sud

Inarrestabile la fuga del lavoro
se la politica non gli restituisce dignità

Fonte:l'altravoce.net

di Elvira Corona


Storie di lavoro ma soprattutto di lavoratori, quelle che si sono raccontate ieri in facoltà di Lettere, a Cagliari. Prima di tutto le storie di cinque lavoratori della notte, ben raccontate nel cortometraggio Circolare notturna - del regista Paolo Carboni - a seguire quelle raccontate dalla viva voce dei neo-cassintegrati della Unilever, e quelle di alcuni operatori di call center. Storie ed esperienze a confronto per cercare di capire, come ha sottolineato Marco Ligas - presidente dell'associazione Luigi Pintor e per l'occasione moderatore della conferenza - se «ha ancora un senso parlare di valore sociale del lavoro».
A sentire Sandro Scalas dell'Unilever, ma anche Stefano Masu, operatore del 187, il senso ce l'ha eccome, visto che la considerazione del lavoro si sta perdendo, per renderlo sempre più simile a una merce. «Le multinazionali considerano tutti solo come dei consumatori», dice Scalas, «la professionalità di chi lavora non può nulla di fronte alle logiche del maggior profitto».
C'è ancora tanta amarezza nella voce del rappresentate dei lavoratori che a dicembre si sono visti chiudere i cancelli dell'azienda che produceva gelati da 40 anni, e che paradossalmente è stata smantellata nonostante non presentasse nessun sintomo di crisi. Semplice delocalizzazione, figlia della globalizzazione. A nulla era servita la mobilitazione di chi non accettava di perdere il lavoro anche perché non ne comprendeva le ragioni. Ora gli impianti che servivano a produrre i gelati a Cagliari sono utilizzati a Budapest. Lì costa meno, e costa meno tutto: la forza lavoro ma anche i costi per le imprese, abbattuti grazie alle agevolazioni e ai contributi governativi (che una volta si prendevano anche qui). Inoltre si spende meno per la tutela dell'ambiente e magari si può inquinare di più, senza tanti vincoli e restrizioni.
Sandro Masu invece si definisce “un bamboccione” e dopo anni di precariato estremo è riuscito ad avere un posto fisso al call center del 187 dove dà assistenza tecnica agli utenti internet adsl. Anni di lavori con contratti a progetto, per pochi mesi e pochi soldi, senza ferie o malattia, in compenso con turni che impediscono una normale vita sociale. Quella dei call center è una realtà che secondo Roberto Loddo - anche lui operatore del settore - riguarda almeno seimila persone solo nel Cagliaritano. «Difficile contarsi, e incontrarsi, per questo è difficile anche fare rete e fronte comune. Siamo fuori dalla tutela dei sindacati, loro non sono al passo con i tempi, per questo è necessario trovare altre forme di socializzazione». Roberto parla anche della difficoltà di mettere insieme interessi ed esigenze di due tipologie che hanno caratteristiche completamente differenti, quelle dei lavoratori fissi e quelle di chi lavora a progetto: «sono due dimensioni che non possono comunicare».
Si sente chiamato in causa Nicola Marongiu, rappresentate della CGIL, e ammette che «dopo la battaglia contro l'articolo 18 nel 2002 il sindacato sta attraversando un periodo di regressione». Si ricollega alla vicenda Unilever per rimarcare come le relazione tra lavoro e territorio siano diventate ormai assurde: «Spesso non si sa neppure a chi rivolgersi. Chi è l'interlocutore quando parliamo di una multinazionale? Tutto questo crea disorientamento», afferma il sindacalista. «È necessario costruire forme di partecipazione che allarghino l'ambito dei diritti ma in tutti i paesi». Il riferimento è al fatto che oggi si misura il grado di libertà di un paese sulla libertà di circolazione delle merci, «mentre sarebbe opportuno allargare i diritti dei lavoratori. Problemi complessi, e globali, ma che vanno affrontati a partire dalle situazioni locali e reali».
Uno delle poche novità positive, secondo Loris Campetti, giornalista del quotidiano il Manifesto, è che ora il cinema ha ripreso a parlare di lavoro. Ma è solo il cinema a farlo: la politica e l'informazione sono rimaste indietro. «Di lavoro si parla e ci si ricorda solo quando si devono raccogliere voti, o quando muoiono tante persone come nella ThyssenKrupp. Non c'è la rappresentanza, c'è solo la rappresentazione del viso bruciato da candidare alle elezioni». Il riferimento è all'ex operaio della fabbrica torinese in lista con il PD: «Quelli che lo candidano sono quelli che condividono il principio che per guadagnare di più bisogna lavorare di più, magari defiscalizzando gli straordinari. Oggi si pensa ai lavoratori solo come all'appendice della macchina che fa funzionare il meccanismo».
Per Campetti, il valore sociale del lavoro è opposto a tutto questo: «Si deve riconosce il lavoro e i lavoratori come ricchezza all'interno della società. Le scelte politiche devono avere al centro il valore del lavoro e i lavoratori devono essere il motore di questo meccanismo». Il giornalista è molto critico nei confronti dell'informazione. Oltre al fatto che ormai si parla di lavoro solo quando ci sono i morti, e le notizie vengono date tra le altre, in stile bollettino di guerra, Campetti è convinto che la cancellazione della rappresentazione delle condizioni del lavoratori contribuisca a cancellarne l'identità.
Come dice uno dei personaggi del cortometraggio di Carboni, «oggi l'operaio si crede vicino al padrone perché magari ha lo stesso telefonino di ultima generazione, ma magari si è rivolto a una finanziaria per comprarselo». Una perdita di identità che produce anche un senso di solitudine, «e nella solitudine siamo tutti peggiori», continua Campetti. Soluzioni? Una è costruire delle reti sociali più forti, ma devono passare per forza per sindacato e partiti politici: «non certo per come sono adesso», ma non se ne può prescindere. È un passo necessario per far valere i diritti dei lavoratori e riconoscerne il loro valore sociale, perché «per le imprese ci sarà sempre un paese più a est o uno più a sud dove spostarsi per poter aumentare i profitti a scapito dei lavoratori».

Peccato, Walter: se solo ci avessi detto che dobbiamo cambiare noi per cambiare l'Italia…

Fonte:l'altravoce.net

di Sergio Diana

Ho sempre pensato che i comizi elettorali servono a poco. Per il semplice motivo che vi si dicono e ripetono cose che il pubblico sa già. Prendete ieri a Cagliari. Piazza Garibaldi gremita, folla festante, bandiere, “democratici” ad ascoltare Veltroni. Poco più in giù, piazza del Carmine gremita, folla festante, bandiere, gente di destra ad ascoltare Fini. La destra parla alla destra, i “democratici” parlano ai democratici. Stesso copione, stessi contenuti. Ma se l'obiettivo è convincere qualcuno/a a votare questo o quel partito che bisogno c'è? Se quella gente è li ad ascoltarli non significa forse che, ovviamente, voterà per loro? Si, ci possono essere anche gli indecisi. Ma come fanno a partecipare a due comizi contemporaneamente?
Mi sento più a destra…Vado a sentire Fini. No, Veltroni mi piace, vado a sentire lui... In parecchi resteranno a casa. Io sono andato a sentire Veltroni. Per puro divertimento mi sono finto “indeciso di sinistra, pronto al voto utile”. Grazie a un piccolo artifizio Zen ho sgomberato la mia mente dalle mie convinzioni e dai miei pregiudizi di comunista. Con mente e animo aperti mi sono dunque presentato puntuale sotto il palco: vediamo se mi stupisce; vediamo se mi convince. Sono tornato a casa più comunista che mai.
Sono tornato a casa con la ferma convinzione che con il PD al governo non cambierà nulla e che il nostro povero Paese, nelle condizioni della zattera di Géricault è, e così continuerà a navigare. Non affonderà. Grazie alla forza di quei pochi uomini e donne di mare che danno e daranno tutto per mantenerla a galla.
Perché il buon Veltroni non mi ha convinto? Forse perché pur parlando ai sardi, della Sardegna non ha parlato, a parte qualche scontato riferimento alla nostra storia recente ed alla cattedrale nel deserto di Pula.
Ma forse io mi aspettavo un saluto ai giovani dell'Unilever-Algida che, poveri loro, esibivano davanti a lui uno striscione in cui chiedevano aiuto, e magari mi aspettavo due cosette in tema di riconversione seria delle nostre aziende in crisi, invece di mendicare cordate di salvataggio o flebo di soldi pubblici. Oppure auspicavo, in tema di sicurezza, un riferimento ai morti di faida in Sardegna, che tutte le mafie d'Italia ci invidiano.
Forse due cosucce sul proposito del PD di investire sul nucleare e, soprattutto, su dove finiranno le scorie. Oppure due paroline sul raddoppio del poligono di Quirra, fortemente voluto da qualche zelante protosardo del suo partito. Probabilmente, invece che del riferimento al solito “sviluppo”, alla “crescita”, alla competitività, all'aumento del PIL, mi sarei aspettato un riferimento alla Sardegna come laboratorio di decrescita. È laboratorio di tutto, di troppo, eccetto per ciò di cui è più dotata: il silenzio, la pace, la natura, la bellezza, la lentezza.
Ma in un comizio non si può dire di tutto. Forse, per convincermi, avrei preferito non sentire la solita, stupida, ossessiva litania che aumentare le pensioni e gli stipendi serve a far aumentare i consumi, e non a far star meglio la gente. Interessante la proposta di ridurre il numero delle leggi; peccato che se siamo il Paese che, in Europa, ha più leggi degli altri ci sarà pure un motivo! E del fatto che dobbiamo regolamentare tutto perché non ci possiamo fidare gli uni degli altri, Walter non ne ha parlato. Ma in un comizio non si può dire di tutto.
Poi, verso la fine, un sussulto! «Vogliamo cambiare il modo di fare politica»! Senti, senti, qui si fa sul serio, mi son detto. E vai con l'apologia dei meriti e della “novità” che il PD rappresenterebbe sulla scena politica nazionale. Un unico partito, un unico programma per rendere l'Italia finalmente governabile. Il tutto grazie al fatto di essere riuscito a liberarsi (per carità: «reciprocamente») della “sinistra estrema”. Chissà se ci crede veramente. In ogni caso bastava guardarsi intorno per capire. La ex sinistra sarda, il nuovo che avanza, era accalcato nel lato destro ma fuori dal palco. Si notava che, in disparte, soffrivano. Sul palco, Renato Soru, citato più volte, sembrava lui il segretario del PD. Cabras, in sordina, se la rideva sotto i baffetti.
Parla, parla, alla fine mi stavo stancando e, vi giuro, stavo per urlargli: «A Walter, dicce quarcosa che già nun sapemo!». Se po' fa'. Finito! Applausi, sventolio di bandiere e, dulcis in fundo, tutti a cantare l'inno di Mameli con la mano sul cuore. Commovente. Sembrava di essere allo stadio. Già, lo stadio. È li che tutti ci sentiamo italiani. È li che viene fuori il sentimento nazionale. È li che gli italiani e le italiane amano il loro Paese più di qualsiasi altra cosa. Bella trovata! Per farci sentire italiani Walter ci porta allo stadio. È così che si cambia l'Italia!
Mentre mi allontanavo dalla piazza e le mie difese Zen iniziavano a venir meno, mi son chiesto: ma cosa avrebbe dovuto dire il povero Walter per convincerti?
Non so… Forse mi avrebbe convinto sentire per la prima volta qualcuno che, con coraggio e sinceramente, diceva in faccia alla sua gente come stanno veramente le cose. Che il nostro è un Paese malato; che se il Paese è malato è malata la sua gente; che se non guarisce la sua gente non guarisce neppure il Paese. Che se vogliamo cambiare veramente l'Italia ed il modo di far politica occorre dire basta col dare la colpa ai politici ed alla politica! Ogni Paese ha la classe politica che si merita! Noi ci meritiamo questa. Se vogliamo di più; se vogliamo di meglio... dobbiamo cambiare noi stessi!
Sarebbe stato bello e convincente - meglio dell'inno di Mameli - sentire che il primo, il più importante e il più massiccio investimento che farà il governo sarà in RI-EDUCAZIONE degli italiani e delle italiane. RI-EDUCAZIONE per cambiare radicalmente la nostra mentalità orientandola non più verso i comuni, radicati principi del fottere il prossimo e dell'alienazione dei/delle cittadini/e dalla cosa pubblica ma verso l'amore ed il rispetto per il proprio Paese e per chi ci vive, inclusi coloro che accogliamo dai paesi impoveriti…
Purtroppo queste cose Veltroni non le ha dette. Ma nei comizi non si può dire di tutto.