di Elvira Corona
«Noi siamo i dimenticati da tutti, fuori da ogni accordo, nonostante molti abbiano lavorato per tanti anni in questa fabbrica». Commento amareggiato quello di Graziella Orrù, dal 1988 “stagionale” dello stabilimento Algida - gruppo Unilever - di viale Marconi, a Cagliari, che dal 31 dicembre cesserà definitivamente la sua attività e vedrà partire gli impianti di produzione. C'è amarezza, a poco più di 48 ore dall'accordo raggiunto tra sindacati, vertici aziendali, Confindustria e assessori al Lavoro di Regione e Provincia che - se non si troverà un soggetto disposto ad acquistare quello che rimarrà dell'azienda che produceva gelati - rinvia soltanto di un anno la disoccupazione, e solo per i 75 dipendenti a tempo indeterminato. Un accordo raggiunto non senza difficoltà, che scongiura la mobilità (tranne per i lavoratori vicini al pensionamento) e la sostituisce con la cassa integrazione.
Per altri 25 dipendenti - l'ultimo dei contratti a tre anni scade il 31 dicembre - si assicurano invece tre mensilità nel 2008. «Ci aspettavamo qualcosa in più, non tanto a livello monetario, quanto a livello di garanzie di assunzione nel caso in cui si trovasse un nuovo acquirente: ci sono le promesse della Regione, adesso, ma niente di scritto. I sindacati ci avevano assicurato che non avrebbero firmato nulla che non tutelasse anche noi, ma così non è stato». Il commento amaro è di uno dei dipendenti a termine, che preferisce rimanere anonimo. «Non ci aspettavamo certo un trattamento come quello dei colleghi assunti a tempo indeterminato, anche se molti di loro lavorano all'Algida da meno tempo rispetto a molti di noi. Non capisco perché nel momento in cui l'azienda ha assunto con contratti a tempo indeterminato abbiano attinto dall'esterno, formando persone nuove, mentre all'interno ce n'erano già con una buona esperienza».
La risposta forse è nelle parole di Sandro Scalas, rappresentante della RSU: «Unilever ha preso tutto quello che poteva prendere, a livello di finanziamenti, contributi, agevolazioni, e ora va via senza lasciare niente, cercando di passare anche per un'azienda socialmente responsabile perché chiede la cassa integrazione. Ma quelli sono soldi nostri, dei contribuenti, non certo soldi loro. Facendo un paio di conti potremmo dire per tutti questi anni hanno avuto la forza lavoro a costo zero o quasi».
Una politica - quella del colosso anglo-olandese - ispirata dalla ricerca del massimo profitto a tutti i livelli. Anche la motivazione della chiusura scritta nell'accordo appena siglato lascia pensare questo: si parla di «esercizio imprenditoriale divenuto strutturalmente antieconomico così da postularne la cessazione». L'antieconomicità probabilmente va interpretata rispetto alle sfide del mercato globale, ma qui l'attività di produzione dei gelati non era certo in perdita (se è vero che un'azienda rispetta il vincolo di economicità se i ricavi superano i costi). Scelte fatte senza pensare alle persone, «anche se per mostrarsi un'azienda sensibile organizzava le feste per i nostri bambini a Monte Claro», dice ancora Scalas. «Ma ora agli stessi bambini che giocavano e si divertivano nel parco dobbiamo dire che non abbiamo più un lavoro, e non è facile».
Rimangono fuori dai giochi - da tutti i giochi, accordi e compromessi - i lavoratori che non hanno nessun diritto da far valere, ossia le 80 persone che hanno lavorato con contratti stagionali. Persone assunte quando c'era più bisogno di forza lavoro per la produzione: 3 mesi all'anno, a volte per 6, fino ad arrivare a 11. Molti di loro sono andati avanti così per quasi vent'anni. Un rapporto di fiducia che si rinnovava mese dopo mese, anno dopo anno. Ma sulla fiducia non sono previsti ammortizzatori sociali, e in una situazione cosi difficile, oltre alla delusione c'è anche la rabbia. Rabbia di chi è convinto di aver lavorato bene, di essere stato una parte importante dell'azienda, tanto da farle vincere tanti riconoscimenti internazionali.
Nello stabilimento di viale Marconi - raccontano i dipendenti con più esperienza - venivano sperimentati i nuovi prodotti, hanno visto la luce tanti nuovi gelati che poi abbiamo trovato nei cartelloni dei bar, e il merito è anche nostro, perché oltre all'idea innovativa, ci vogliono anche le persone che le realizzino poi, che tarino le macchine e le programmino in un certo modo, per ottenere i risultati migliori.
Ieri mattina Fausto del Rio, capo di gabinetto dell'Assessorato all'Industria, ha incontrato una delegazione di lavoratori: un incontro non programmato, chiesto per ricordare alla Regione - e in particolare al presidente Renato Soru - le promesse fatte durante la sua visita all'Algida. «Anche se abbiamo firmato l'accordo e abbiamo interrotto l'occupazione, la vertenza non è chiusa», dice Sandro Scalas. È necessario che le istituzioni facciano delle scelte coraggiose, e facciano di tutto per rendere la vendita dell'azienda una realtà».
Ora sembra che il vincolo sul divieto di produrre i gelati sia caduto, ma secondo quanto si legge nell'accordo i macchinari verranno smontati e portati nella sede di Caivano, vicino Napoli. «Ora è importante che non venga smantellata la catena del freddo: senza quella nessuno investirebbe un soldo in questo stabilimento», avverte il sindacalista.
Preoccupa in particolare un passaggio dell'accordo firmato l'altro ieri: «L'azienda, nell'ipotesi di vendita, ferma ovviamente la propria discrezionalità sul punto, porrà in essere, per quanto di propria competenza, le iniziative tecniche ed amministrative opportune al fine di riattivare l'impianto di refrigerazione». Un punto controverso, o quantomeno dubbio. Ma la necessità di avere tutte le firme alle 4 del mattino di mercoledì, complice anche la stanchezza di 11 ore di trattative, ha portato a fidarsi di una interpretazione favorevole ai dipendenti. Ma Unilever meriterà la fiducia accordatale ancora dai suoi ex lavoratori?